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Gli 8 racconti

Sulla sedia

 

È lei, lo sento. Una vita ho aspettato, una vita per arrivare a questo momento. Mi avevano detto che l'avrei riconosciuta, ma non mi hanno mai detto come. Non è una cosa possibile da spiegare, mi dicevano, è lei che si farà riconoscere. E lei si è fatta riconoscere, una sensazione indescrivibile, stupenda. Sono sicuro, non può che essere lei: il sogno della mia vita si è avverato.

Da innumerevoli anni ormai lavoro nell'Ufficio. Ci sono entrato da giovanissimo e non l'ho più lasciato. Non che mi trovassi particolarmente bene, anzi. Lavorare nell'Ufficio è un onore, è il posto migliore, però non è facile lavorare sette giorni alla settimana, tutte le settimane dell'anno, non assentarsi un solo giorno per non trovare la scrivania occupata da un altro.

Però non me ne sono mai andato. Sarà la noia, la fatica di cambiare vita, il piacevole e sottile sapore che si nasconde nelle abitudini, di una vita monotona e grigia, senza gioie ma anche senza dolori. Oppure, e questo forse è il vero motivo, perché la speranza di poter vivere ciò che sto vivendo ora mi ha sorretto in tutto questo tempo. Speranza mai confessata, ma sempre viva e presente, di potere provare una gioia finalmente piena e totale.

Dicevo che sono qui da tanto tempo, tanto che mi sembra di non avere mai vissuto fuori dall'Ufficio, prima dell'Ufficio. L'Ufficio è un edificio basso, stretto e lungo, lunghissimo, non ho mai visto le estremità della costruzione. Non ci sono finestre, si lavora sotto forti luci artificiali e l'aria è umida e pesante. La mole di lavoro è enorme e le scadenze sono troppo vicine, praticamente non ci si parla tra colleghi, nell'Ufficio. Parlare per dirsi cosa, poi? La vita fuori dall'Ufficio è così breve e monotona, non succede mai niente e nemmeno vogliamo far succedere qualcosa. Se scambiassero la mia vita con quella di qualsiasi altro dell'Ufficio non noterei la differenza. E, forse, non avvertirei la differenza nemmeno se morissi. A lavorare qui siamo migliaia, forse milioni, identici, intercambiabili, conosco solo i nomi dei vicini di scrivania, e posso immaginarne i sogni, le speranze. Perché i sogni e le speranze sono uguali per tutti noi impiegati dell'Ufficio. Il sogno di ognuno di noi è di potere vivere una giornata come la sto vivendo io, da vincitore, almeno una volta nella vita. La speranza è di potere arrivare al termine della propria vita e avere almeno un episodio da ricordare, un qualunque avvenimento che risalti nel grigiore totale.

L'unico avvenimento che possa scuotere il monotono svolgersi della vita di chi lavora nell'Ufficio è accaduto a me. E' una storia che si impara subito nell'Ufficio. Tra sottintesi, occhiate e sussurri riuscii a capire dai colleghi che esiste una sedia, anzi la Sedia, che viene affidata solo al migliore, come premio. La Sedia, scoprii, ti da sensazioni mai provate prima, ti innalza sopra tutti gli uomini, ti trasforma, ti fa sentire onnipotente. Solo la Sedia può fare questo, perciò è molto ambita: non esiste altro modo per sollevarsi dalla monotonia di questo mondo.

È incredibile come, nei primi anni, si rida di ciò che diventerà poi l'unica ragione di vita. Inizialmente ci si sente superiori, si hanno tanti progetti: la Sedia sicuramente non esiste, e se anche esistesse cosa mi interessa, la mia vita è già fin troppo interessante. Bastano però pochi anni nell'Ufficio e si comincia a cambiare, si vedono i colleghi invidiosi del lavoro altrui, si sentono i discorsi sognanti e acidi degli anziani, di quella volta che la Sedia mi aveva sfiorato, la meritavo io, mica il Bagnasco, ci si scopre a pensare cosa farei, se solo avessi la Sedia.

Lavorando nell'Ufficio si imparano alcune cose, vedendo di volta in volta i possessori della Sedia, quando questi sono sufficientemente vicini, ma più spesso spiando i mentitori, che fingono di avere la Sedia. Ad esempio che quando uno riceve la Sedia, o pretende di averla ricevuta, si isola dai colleghi ancora più di quanto già non sia isolato, non scambia neppure quelle poche parole di cortesia di una volta, si sente superiore a tutti gli altri, e gli altri d'altronde sono consci della propria inferiorità. Tutti i rapporti tra il possessore della Sedia e il mondo vengono troncati. Quindi tutto ciò che ho riportato come informazioni non sono altro che voci, niente più. Una cosa sola è nota: la Sedia va da chi la merita e abbandona chi non ne è degno. Così ognuno di noi lavora per tutta la vita, senza riposo, il più possibile, finché il sonno non gli blocca il cervello, la fatica non gli schianta la schiena, rubandosi il lavoro dalle scrivanie, cercando di aiutare il meno possibile gli avversari di questa competizione.

Uno solo però si merita la Sedia. Hanno visto giusto questa volta, l'hanno data a me. Da tanto tempo l'aspettavo, oramai non speravo più di poterla mai toccare. Una vita passata con un unico obiettivo, raggiunto l'ultimo giorno di lavoro, prima della pensione. Ma ora la pensione può aspettare, posso godermi la Sedia per qualche giorno almeno, non posso abbandonare proprio ora. E finché sarà mia non mi alzerò dalla scrivania, non voglio che me la rubino, nessuno me la deve togliere. E lavorerò, lavorerò come non ho mai lavorato prima, nessuno potrà mai dire che non me la sono meritata pienamente.

La Sedia.

Ed è mia.

 

È passato qualche tempo oramai, sono stati giorni molto belli. Non mi sono mai sentito così invidiato, così importante e superiore agli altri, ed è una sensazione inebriante. Sono anche molto stanco, fisicamente e mentalmente, non ho più lasciato l'Ufficio dal giorno in cui ho ricevuto la Sedia.

Non ho più abbandonato l'Ufficio eppure, anche di notte, non sono mai solo: intere falangi di impiegati si fermano ogni notte, nella penombra, alle loro scrivanie. E' tutta gente che crede di avere la Sedia, o che finge di averla, e si comporta come se ciò fosse vero. Se non sapessi che esiste una sola Sedia nell'Ufficio, e se non fossi certo di possederla, potrei essere tratto in inganno da questi impostori, così come lo sono tutti gli altri. Purtroppo la presenza di questi uomini falsi limita la mia influenza sui colleghi, fortunatamente la sensazione di potere illimitato che la Sedia riesce a trasmettere non mi può essere tolta da nessuno al mondo.

Ci vedete, vero e falsi possessori di Sedia, sempre curvi sulla scrivania, a lavorare o a riposare dalle fatiche del lavoro, giorno e notte, consumiamo i pasti in Ufficio, non perdiamo che il minimo tempo possibile per i bisogni corporali fondamentali, dopodiché si torna a lavorare, perché la Sedia rimanga a noi, perché chi ce l'ha affidata possa essere soddisfatto di noi e non abbia a ripensarci. Certo, io sono l'unico ad assaporare i piaceri che solo la vera Sedia trasmette, però anche i truffatori hanno i loro vantaggi, in termini di prestigio in Ufficio, tanto maggiori quanto più riescono a imitare il comportamento di prescelto della Sedia.

Come il Marcon, è seduto proprio di fronte a me. Inizialmente pensavo che fosse lui l'Unico, poi hanno affidato la Sedia a me, lui non ha mutato atteggiamento, solo allora ho capito che stava fingendo. E' due giorni oramai che l'hanno portato via, era anziano, non ha retto allo sforzo. Il suo posto è già stato occupato da uno nuovo, non succede mai che nell'Ufficio rimanga un posto libero.

E solo qualche giorno fa, una mattina, ho sentito un suono soffocato, come di esultanza, provenire da dietro. Mi sono voltato e ho visto il Franzoi accarezzare la propria sedia, con aria felice. Un altro impostore, e proprio nella scrivania dietro la mia. Non si è più mosso da allora, lo sento scrivere e spostare fogli in continuazione, ma non voglio girarmi a guardarlo, non voglio dargli questa soddisfazione.

 

Sento l'invidia crescere intorno a me, capisco che i colleghi cominciano a odiarmi per ciò che mi sono meritato e guadagnato. Sicuramente tutti si ritengono migliori di me, più meritevoli, più volenterosi, e non giustamente apprezzati, a differenza di me. Si rendono finalmente conto che il vero, l'unico possessore della Sedia sono io, e lo sarò ancora a lungo, il migliore possessore della Sedia che l'Ufficio abbia mai avuto. Allora intuisco occhiate maligne, discorsi infamanti, astio. Solo ieri mattina ho notato il Milanese e il Fracasso scambiare sottovoce qualche parola. Sono sicuro, quella sicurezza che solo la forza della Sedia può dare, che stessero parlando di me con cattiveria.

Sento tutto intorno a me una grande freddezza, sento l'intero Ufficio contro di me, mi sembra di essere un corpo estraneo, diverso da tutti gli altri esseri meschini. Inizialmente questa sensazione di distacco dagli altri era piacevole, mi rendevo conto di essere superiore e che i colleghi accettavano la loro inferiorità. Ora non esiste più il vecchio rispetto nei miei confronti, rimane solo più il contrasto, io da una parte e l'Ufficio dall'altra. Perché i colleghi non vogliono riconoscere la loro sconfitta nei miei confronti? Perché mi devono odiare se sono meglio di loro?

Non mi lamento del comportamento dei colleghi, nell'Ufficio ognuno è sempre stato isolato da tutti gli altri, non ci sono stati contatti di nessun tipo, mai. Sono le sensazioni che provo che mi turbano, sensazioni di odio profondo da parte di tutti gli altri impiegati. Forse è la Sedia che rende più sensibili al male. Mi sento perso nel mare di odio che mi circonda, forse la Sedia non mi dona più la forza necessaria per sopportare tutto ciò che mi contrasta, come una volta, oppure è la stanchezza, che non riesco più a sopportare. Sono tanto stanco, troppo stanco, da non reggere più alle fatiche che la Sedia richiede. Ma non posso rinunciare, alzarmi, tornare a casa, lasciare il lavoro. Perché è ciò che loro vogliono. Perché per chi ha posseduto la Sedia anche solo per un istante è impossibile ritornare alla vita normale, alla quotidianità insulsa della vita.

 

Ieri uno nuovo, Lancioni, Lancini, è passato vicino alla scrivania e mi ha lanciato uno sguardo di compassione, come si guarda un barbone sdraiato a terra. Non è possibile. Non si ha più rispetto per chi ha lavorato una vita, senza mai riposarsi, senza mancare un giorno, fino a guadagnarsi l'onore di stare sulla Sedia? Chi si crede di essere quel ragazzotto? Io, io lo posso guardare con compassione, perché ho avuto tutto dalla vita, la mia è stata una vita eccezionale, l'unica degna di essere vissuta, e nessuno può togliermi i ricordi. Io potrò raccontare di avere avuto la Sedia, di essermela meritata e di averla saputa tenere per tanto tempo. Lui non ha ancora dimostrato niente, lui è il nulla. Tutti, qui intorno, mi guardano con malvagità o pena. Non hanno capito nulla, non si rendono conto, loro possono solo sognarsela una vita piena di vittorie e di gioie come la mia.

Perché la Sedia è mia, e lo sarà ancora per molto, molto tempo, li seppellirò tutti, questi mediocri impiegatucci. Non sanno che è il loro odio a donarmi la forza per resistere, a farmi dimenticare la stanchezza.

Sì, la stanchezza. Oramai non riesco quasi più a tenere gli occhi aperti, lavoro sempre meno, non posso concentrarmi, la vista si annebbia ogni tanto, il cervello sembra come rallentare, sempre più piano, sempre più piano, e le luci calano, lentamente, forse si fa notte, non sento più i rumori dei fogli, delle penne, forse gli altri sono andati a casa, oramai è buio pesto, sento solo più il freddo del vetro della scrivania sulla faccia, il dolore degli occhiali schiacciati sul naso, devo toglierli, potrei tagliarmi, adesso li levo, non sento più il freddo, non sento più nulla. Nulla.

 

 

Febbraio 2003

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